Capodanno cinese 2019: le campagne più interessanti

Il Capodanno Cinese, conosciuto anche come Festa di Primavera o capodanno lunare, è la festa tradizionale più importante dell’anno in Cina ed è paragonabile alle festività natalizie dei paesi occidentali.

Questo è il momento dell’anno in cui le famiglie si riuniscono per il tradizionale “cenone”, fanno offerte per le divinità e per gli antenati, si prega Buddha e si pulisce la casa dallo sporco dell’anno passato per fare posto alla felicità e alla buona sorte che arriveranno con il nuovo anno.

Il Capodanno cinese non ha una data fissa perché segue, appunto, il calendario lunare tradizionale. Secondo l’astrologia cinese, ad ogni anno lunare corrisponde un segno zodiacale e al 2019 è toccato il Maiale. Ebbene si, lo scorso 5 febbraio è iniziato l’anno del Maiale. È una festa molto sentita dai cinesi e molti tornano a “casa”, affrontando un lungo viaggio, per riunirsi alla propria famiglia.

Alcuni tra i brand più importanti hanno deciso di incentrare le loro campagna pubblicitarie proprio sui temi legati a questo evento così importante e di cui si parla in tutto il mondo. Non a tutti l’esperimento è riuscito bene, come sempre, c’è chi ha fatto cilecca. Non sono nuovi i casi in cui la superficialità gioca un brutto scherzo agli ideatori delle campagne che, per mancanza di sensibilità o superficialità, mal interpretano i valori di una civiltà e cultura totalmente differente dalla propria.

E’ il caso della campagna di Burberry scattata e diretta dal fotografo Ethan James Green, il pubblica l’ha giudicata di cattivo gusto in quanto poco incentrata sulla festività e molto sui prodotti da vendere.

Comunque i risultati non sono tutti negativi. Trai i grandi brand troviamo Coca-cola, Pepsi, Apple e Pampers. Campagne molto diverse tra loro, ci sono story-telling più avvincenti di altri ma i temi centrali sono gli stessi: famiglia, legami, bambini, difficoltà e viaggi, tra chi torna dalla propria famiglia e chi va via.

Lasciamo a voi l’onere e l’onore di valutare.

Buona visione!

Addio pubblicità tradizionale, arriva il native advertising

In un contesto in cui i consumatori hanno imparato ad ignorare i formati pubblicitari tradizionali, il puro messaggio d’acquisto ormai non funziona più. Come riuscire allora a catturare l’attenzione del consumatore senza disturbare la sua fruizione dei media? Il native advertising sembra essere l’unica soluzione.

Innanzitutto cos’è davvero il native advertising?

Il native advertising è l’utilizzo di pubblicità a pagamento che sfrutta il formato, il tono di voce e la funzione dei media in cui verrà collocato. Articoli, infografiche, video, sono solo alcuni esempi, poiché tutto ciò che può essere promosso può automaticamente diventare native advertising.

Ciò che caratterizza questa ‘pubblicità non pubblicità’ è il mimetizzarsi nel flusso editoriale della pagina, esponendosi ai consumatori senza disturbarli nella lettura, anzi sarà il lettore a scegliere di fruirla senza alcuna imposizione come invece avviene nella pubblicità tradizionale. Il native advertising dovrà solo fornire il tipo di informazioni che il pubblico si aspetta in quel determinato contesto.

Sono proprio queste qualità a rendere questo tipo di pubblicità così difficile da individuare all’interno dei media, in quanto spesso si fonde con il contenuto ‘organico’.

Naturalmente non è tutto oro ciò che luccica. Il native advertising ha dimostrato di avere enormi potenzialità anche se una strategia sbagliata potrebbe distruggere la fiducia che i consumatori hanno nel marchio. Se nel contenuto, ad esempio, sarà troppo evidente l’ombra del brand che lo ha sponsorizzato, il fruitore potrebbe sentirsi raggirato.

Per capire meglio cos’è davvero il native advertising ecco alcune case history vincenti.

Netflix e il New York Times

In occasione dell’uscita dell’ultima stagione del telefilm Orange is the new black, la piattaforma Netflix ha collaborato con il New York Times nella stesura di un articolo sulle donne carcerate. Lo stile proposto è stato quello tipico del magazine a stelle e strisce con interviste, statistiche e storie di donne uscite dal carcere.

L’articolo è chiaramente pertinente all’argomento trattato in Orange è il New Black, l’obiettivo di Netflix è stato infatti non solo quello di intrattenere i lettori, ma di aumentare la consapevolezza degli spettatori sulle dinamiche dello show, preoccuparsi anche dei problemi del sistema carcerario americano, cercando di capire come migliorare le cose.

Ciò rende questa native advertising di successo è l’essere stato sia intelligente che emotivamente risonante.

Buzzfeed e Purina

Buzzfeed è probabilmente il brand che meglio di tutti ha saputo trasformare il branded content in un modello di business. Un esempio su tutti è il video creato in collaborazione con Purina, azienda di cibo per gatti.

In “Una guida per gatti per la cura del proprio umano”, lo spettatore rivive la prospettiva del gatto, che con le sue piccole azioni aiuta la giovane padrona nelle scelte di tutti i giorni.

Seppur nel video non viene espressamente menzionato il nome del prodotto, questo risulta divertente e soprattutto non autoreferenziale. Caratteristiche che lo hanno reso da subito virale, riuscendo a raggiungere più di 11 milioni di visualizzazioni!

Ikea e The Telegraph

Ciò che rende il native advertising uno strumento di marketing così potente è il suo non avere confini, come nel caso di Ikea che ne ha sfruttato al massimo le potenzialità trasformandolo addirittura in un quiz.

L’idea è tanto semplice quanto geniale. In collaborazione con il The Telegraph, la nota catena svedese ha creato un quiz estremamente divertente in cui, grazie alle risposte dei  partecipanti, fornisce dei suggerimenti su come ottenere il ‘sonno perfetto’.

Una scelta vincente, poiché questa campagna si allontana dalla vendita di un prodotto specifico puntando a rafforzare l’associazione del brand Ikea a qualcosa di stravagante ma accessibile.

Tre esempi d’impatto che hanno aiutato a rendere il native advertising la nuova frontiera del marketing di successo.

A voi, quale ha coinvolto di più?

Tra sacro e profano, quali limiti per la pubblicità?

La Corte europea dei diritti umani ha condannato la Lituania per aver multato un’azienda che nel 2012 ha utilizzato Gesù e Maria come “testimonial” della loro campagna pubblicitaria, legittimando, di fatto, l’uso di simboli religiosi nelle pubblicità. Secondo i giudici la multa inflitta dalle autorità lituane per aver “offeso la morale pubblica” ha in realtà violato il diritto alla libertà d’espressione dell’azienda. Ma è giusto toccare temi sensibili all’opinione pubblica come la religione nelle campagne pubblicitarie? Esiste un confine tra l’utilizzo di contenuti sacri per realizzare un’idea vincente e la loro strumentalizzazione per fini commerciali?

Nelle creatività pubblicitarie sono presenti da sempre richiami alla religione, in particolar modo quella cattolica: è un tema che si presta a giochi di parole, battute, allusioni. Allo stesso tempo è un argomento che scuote, che crea dibattito, soprattutto nel nostro Paese, storicamente legato ad una tradizione cattolica. Eppure, negli anni sono stati molti i brand italiani che, con leggerezza ma non con superficialità, hanno toccato temi religiosi. Basti pensare a Lavazza che, dal 1995, ambienta fra le nuvole i propri spot in un surreale Aldilà, con tanto di San Pietro a gestire il viavai di “ospiti”.

Come non ricordare, invece, la campagna pubblicitaria “Unhate” (2011), firmata United Color of Benetton, con l’obiettivo di contrastare la cultura dell’odio. Grande scalpore e polemiche suscitarono le immagini con protagonisti i leader mondiali politici e religiosi. In particolar modo, l’immagine del bacio tra Papa Benedetto XVI e l’Imam Al Azhar scatenò le ire del Vaticano che minacciò azioni legali, portando l’Azienda a ritirare la foto.

La domanda da porsi è se abbia senso, oggi, pensare di ricorrere a connotazioni religiose con lo scopo di rassicurare o, al contrario, scandalizzare il pubblico. Ha ancora senso, cioè, usare alcuni temi come strumento per scatenare stati d’animo e reazioni invece di tornare a concentrarsi nuovamente sull’idea creativa?