Come (non) comunicare sui social durante l’emergenza Coronavirus

Di punto in bianco molte agenzie si sono ritrovate a dover apportare modifiche al proprio piano editoriale sui social media e a quello dei loro clienti – se non a cambiarlo del tutto – per fronteggiare al meglio l’emergenza Coronavirus e adattarsi al tragico periodo che stiamo vivendo, senza risultare fuori luogo con il lancio di campagne del tutto inappropriate.

Preso atto del cambiamento delle abitudini degli utenti ai tempi del Covid-19, ecco qualche semplice consiglio da seguire per continuare a promuovere campagne pubblicitarie su Facebook e su altri canali con successo e mantenere alta la brand reputation in questo momento particolare, evitando così scivoloni che possono costare caro.

Quindi, nel pratico cosa non bisogna fare assolutamente:

  • Usare un linguaggio pesante scegliendone uno ironico

Rimodulare il tone of voice è un ottimo inizio per mostrare empatia e diffondere messaggi positivi di solidarietà, speranza e vicinanza (anche se solo virtuale). Tutti noi abbiamo bisogno di rassicurazioni e contenuti che ci facciano sorridere, soprattutto se veicolati con un linguaggio coerente. Perciò evitare toni ironici o, al contrario, assai solenni è meglio. Perché un linguaggio piuttosto grave potrebbe spaventare oppure, peggio ancora, dare l’impressione di lucrare sull’incertezza e il senso di smarrimento delle persone. Ed è inutile dirlo, ma non è onesto farlo.

  • Scegliere le immagini errate

Cercare le immagini per produrre un contenuto vincente, fare una selezione di quelle che piacciono di più e infine scegliere quella che più si reputa giusta sembra piuttosto facile, ma non lo è per niente. Soprattutto oggi una semplice fotografia potrebbe divulgare un messaggio contrario alla normativa emanata dal governo in merito al Covid-19, anche se l’intento non era quello di violare quanto stabilito ai vertici. Dunque, tutte le immagini che ritraggono momenti di socialità e aggregazione sono da escludere perché potrebbero suscitare inevitabilmente reazioni negative da parte di un’audience parecchio sensibile.

  • Lasciare in programma i contenuti realizzati prima dell’emergenza sanitaria

Di solito in un piano editoriale, oltre ai classici contenuti realizzati settimana per settimana, sono pianificati anche post programmati per essere pubblicati più in là: basta pensare agli anniversari o semplicemente alle giornate mondiali che ricorrono una volta l’anno. Controllare questi contenuti realizzati prima della crisi sanitaria è utile per valutare se è il caso di cambiare la strategia di comunicazione adottata precedentemente ed evitare di conseguenza feedback tutt’altro che positivi dagli utenti.

Ovviamente è da tenere conto che, anche se è difficile pensare ad altro se non a questa orribile epidemia, la comunicazione sui social non deve necessariamente puntare solo e soltanto su questo argomento. Certamente l’instant marketing è molto apprezzato per la sua vena ironica in tempo reale, però – come già detto in precedenza – le abitudini delle persone sono cambiate: ora si stanno sperimentando nuove ricette in cucina, si sta trascorrendo più tempo in famiglia. Perciò pianificare nel dettaglio una nuova strategia di comunicazione con un piano editoriale in linea con i tempi può rivelarsi un’alternativa valida. E gli spunti in giro si trovano eccome.

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I trend da monitorare per il 2019

L’anno è iniziato da poco ma non c’è tempo da perdere. Diamo un’ occhiata ai trend da monitorare in questo 2019 per essere sempre aggiornati!

  • La generazione Z

Dopo i baby boomers, la generazione X ed i Millennials (o generazione Y) arrivano loro, quelli nati dopo gli anni 2000. Se fino ad ora sono stati ignorati perché troppo piccoli per fare acquisti ed influenzare il mercato, oggi si affacciano al mondo degli adulti. Figli della tecnologia, sono sempre connessi, anche con più dispositivi alla volta, non sanno cosa farsene del libretto delle istruzioni e vogliono che tutto funzioni alla velocità della luce, o anche di più, se si può. Avere una visione chiara dei consumatori, studiarne le caratteristiche comportamentali e analizzarne le abitudini di acquisto ci fornirà le informazioni necessarie per mettere a punto una strategia di marketing di successo.

  • Un nuovo customer journey

Con il termine customer journey indichiamo il processo che il consumatore vive, prima, durante e dopo, l’acquisto di un prodotto/servizio. È importante seguire tutte le sue fasi, dalla prima, chiamata awareness, all’ultima, detta loyalty. Quello che si prevede per il 2019 è un incremento degli strumenti e delle app che hanno come obiettivo quello di dedicare maggiore attenzione al consumatore dopo che ha effettuato l’acquisto. Ciò che conta, una volta acquistato un cliente, è fidelizzarlo. Un cliente fedele è un investimento, a lungo termine, con rendimenti sempre crescenti.

  • Social Activism

Sostenere le giuste cause, prendere posizione e schierarsi: è questo quello che i consumatori notano e vogliono da un brand. Parliamo di social activism, far sentire alle persone che, oltre al nostro fatturato, ci interessa, anche e soprattutto, quello che accade nel mondo.

Addio pubblicità tradizionale, arriva il native advertising

In un contesto in cui i consumatori hanno imparato ad ignorare i formati pubblicitari tradizionali, il puro messaggio d’acquisto ormai non funziona più. Come riuscire allora a catturare l’attenzione del consumatore senza disturbare la sua fruizione dei media? Il native advertising sembra essere l’unica soluzione.

Innanzitutto cos’è davvero il native advertising?

Il native advertising è l’utilizzo di pubblicità a pagamento che sfrutta il formato, il tono di voce e la funzione dei media in cui verrà collocato. Articoli, infografiche, video, sono solo alcuni esempi, poiché tutto ciò che può essere promosso può automaticamente diventare native advertising.

Ciò che caratterizza questa ‘pubblicità non pubblicità’ è il mimetizzarsi nel flusso editoriale della pagina, esponendosi ai consumatori senza disturbarli nella lettura, anzi sarà il lettore a scegliere di fruirla senza alcuna imposizione come invece avviene nella pubblicità tradizionale. Il native advertising dovrà solo fornire il tipo di informazioni che il pubblico si aspetta in quel determinato contesto.

Sono proprio queste qualità a rendere questo tipo di pubblicità così difficile da individuare all’interno dei media, in quanto spesso si fonde con il contenuto ‘organico’.

Naturalmente non è tutto oro ciò che luccica. Il native advertising ha dimostrato di avere enormi potenzialità anche se una strategia sbagliata potrebbe distruggere la fiducia che i consumatori hanno nel marchio. Se nel contenuto, ad esempio, sarà troppo evidente l’ombra del brand che lo ha sponsorizzato, il fruitore potrebbe sentirsi raggirato.

Per capire meglio cos’è davvero il native advertising ecco alcune case history vincenti.

Netflix e il New York Times

In occasione dell’uscita dell’ultima stagione del telefilm Orange is the new black, la piattaforma Netflix ha collaborato con il New York Times nella stesura di un articolo sulle donne carcerate. Lo stile proposto è stato quello tipico del magazine a stelle e strisce con interviste, statistiche e storie di donne uscite dal carcere.

L’articolo è chiaramente pertinente all’argomento trattato in Orange è il New Black, l’obiettivo di Netflix è stato infatti non solo quello di intrattenere i lettori, ma di aumentare la consapevolezza degli spettatori sulle dinamiche dello show, preoccuparsi anche dei problemi del sistema carcerario americano, cercando di capire come migliorare le cose.

Ciò rende questa native advertising di successo è l’essere stato sia intelligente che emotivamente risonante.

Buzzfeed e Purina

Buzzfeed è probabilmente il brand che meglio di tutti ha saputo trasformare il branded content in un modello di business. Un esempio su tutti è il video creato in collaborazione con Purina, azienda di cibo per gatti.

In “Una guida per gatti per la cura del proprio umano”, lo spettatore rivive la prospettiva del gatto, che con le sue piccole azioni aiuta la giovane padrona nelle scelte di tutti i giorni.

Seppur nel video non viene espressamente menzionato il nome del prodotto, questo risulta divertente e soprattutto non autoreferenziale. Caratteristiche che lo hanno reso da subito virale, riuscendo a raggiungere più di 11 milioni di visualizzazioni!

Ikea e The Telegraph

Ciò che rende il native advertising uno strumento di marketing così potente è il suo non avere confini, come nel caso di Ikea che ne ha sfruttato al massimo le potenzialità trasformandolo addirittura in un quiz.

L’idea è tanto semplice quanto geniale. In collaborazione con il The Telegraph, la nota catena svedese ha creato un quiz estremamente divertente in cui, grazie alle risposte dei  partecipanti, fornisce dei suggerimenti su come ottenere il ‘sonno perfetto’.

Una scelta vincente, poiché questa campagna si allontana dalla vendita di un prodotto specifico puntando a rafforzare l’associazione del brand Ikea a qualcosa di stravagante ma accessibile.

Tre esempi d’impatto che hanno aiutato a rendere il native advertising la nuova frontiera del marketing di successo.

A voi, quale ha coinvolto di più?

Tra sacro e profano, quali limiti per la pubblicità?

La Corte europea dei diritti umani ha condannato la Lituania per aver multato un’azienda che nel 2012 ha utilizzato Gesù e Maria come “testimonial” della loro campagna pubblicitaria, legittimando, di fatto, l’uso di simboli religiosi nelle pubblicità. Secondo i giudici la multa inflitta dalle autorità lituane per aver “offeso la morale pubblica” ha in realtà violato il diritto alla libertà d’espressione dell’azienda. Ma è giusto toccare temi sensibili all’opinione pubblica come la religione nelle campagne pubblicitarie? Esiste un confine tra l’utilizzo di contenuti sacri per realizzare un’idea vincente e la loro strumentalizzazione per fini commerciali?

Nelle creatività pubblicitarie sono presenti da sempre richiami alla religione, in particolar modo quella cattolica: è un tema che si presta a giochi di parole, battute, allusioni. Allo stesso tempo è un argomento che scuote, che crea dibattito, soprattutto nel nostro Paese, storicamente legato ad una tradizione cattolica. Eppure, negli anni sono stati molti i brand italiani che, con leggerezza ma non con superficialità, hanno toccato temi religiosi. Basti pensare a Lavazza che, dal 1995, ambienta fra le nuvole i propri spot in un surreale Aldilà, con tanto di San Pietro a gestire il viavai di “ospiti”.

Come non ricordare, invece, la campagna pubblicitaria “Unhate” (2011), firmata United Color of Benetton, con l’obiettivo di contrastare la cultura dell’odio. Grande scalpore e polemiche suscitarono le immagini con protagonisti i leader mondiali politici e religiosi. In particolar modo, l’immagine del bacio tra Papa Benedetto XVI e l’Imam Al Azhar scatenò le ire del Vaticano che minacciò azioni legali, portando l’Azienda a ritirare la foto.

La domanda da porsi è se abbia senso, oggi, pensare di ricorrere a connotazioni religiose con lo scopo di rassicurare o, al contrario, scandalizzare il pubblico. Ha ancora senso, cioè, usare alcuni temi come strumento per scatenare stati d’animo e reazioni invece di tornare a concentrarsi nuovamente sull’idea creativa?