La Corte europea dei diritti umani ha condannato la Lituania per aver multato un’azienda che nel 2012 ha utilizzato Gesù e Maria come “testimonial” della loro campagna pubblicitaria, legittimando, di fatto, l’uso di simboli religiosi nelle pubblicità. Secondo i giudici la multa inflitta dalle autorità lituane per aver “offeso la morale pubblica” ha in realtà violato il diritto alla libertà d’espressione dell’azienda. Ma è giusto toccare temi sensibili all’opinione pubblica come la religione nelle campagne pubblicitarie? Esiste un confine tra l’utilizzo di contenuti sacri per realizzare un’idea vincente e la loro strumentalizzazione per fini commerciali?
Nelle creatività pubblicitarie sono presenti da sempre richiami alla religione, in particolar modo quella cattolica: è un tema che si presta a giochi di parole, battute, allusioni. Allo stesso tempo è un argomento che scuote, che crea dibattito, soprattutto nel nostro Paese, storicamente legato ad una tradizione cattolica. Eppure, negli anni sono stati molti i brand italiani che, con leggerezza ma non con superficialità, hanno toccato temi religiosi. Basti pensare a Lavazza che, dal 1995, ambienta fra le nuvole i propri spot in un surreale Aldilà, con tanto di San Pietro a gestire il viavai di “ospiti”.
Come non ricordare, invece, la campagna pubblicitaria “Unhate” (2011), firmata United Color of Benetton, con l’obiettivo di contrastare la cultura dell’odio. Grande scalpore e polemiche suscitarono le immagini con protagonisti i leader mondiali politici e religiosi. In particolar modo, l’immagine del bacio tra Papa Benedetto XVI e l’Imam Al Azhar scatenò le ire del Vaticano che minacciò azioni legali, portando l’Azienda a ritirare la foto.
La domanda da porsi è se abbia senso, oggi, pensare di ricorrere a connotazioni religiose con lo scopo di rassicurare o, al contrario, scandalizzare il pubblico. Ha ancora senso, cioè, usare alcuni temi come strumento per scatenare stati d’animo e reazioni invece di tornare a concentrarsi nuovamente sull’idea creativa?